martedì 30 aprile 2013

Letteralmente fotografia, i lavori più zitti e più tristi che ci siano...

E' passato solo un mese dall'avventura sui Sibillini, ma a me sembra molto di più. E d'altronde, noi umani siamo fatti così: quando proviamo emozioni intense, ne vorremmo sempre di nuove. In ogni caso, io personalmente non dispero e sono sicura che anche i protagonisti delle giornate di Letteralmente fotografia sapranno vivere ulteriori momenti perfetti come quelli provati insieme quattro settimane fa.
Per spingerli su questa strada (per quanto mi sia possibile: mica sono lo sciamano Giovanni Marrozzini?), eccovi finalmente i testi da loro prodotti durante il workshop. Manca la versione più lunga dello scritto di Maddalena Blandino sulla "meriggia", ma so che ci sta lavorando per cui sarò ancora più contenta di dedicare un ulteriore post al lavoro della mia giovane amica.
Manca, ahimè, anche una delle immagini del collettivo ZITTITRISTI, che però conto di recuperare a breve (Matteo Crescentini, volevo il tuo Jpeg con la faccina :'(, ma forse non mi sono spiegata).
Mi accontento (si fa per dire!) dell'immagine di Maria Teresa Dell'Aquila, la vera mente del Collettivo più triste del pianeta e della versione riveduta da Marco Cappellano, triste "in sé" (capirete in seguito perché scrivo così). Infine, mi beo (e sì!) dei testi, straordinariamente, profondamente... tristi, che riproduco sotto.
Sto scherzando, eh, però chi avrà la pazienza di leggerli, si accorgerà quanto siano intrisi di silenzio. E di poesia. Il che, in effetti, un po' li rende tristi. Solitari. Y final. E con ciò smetto di dire sciocchezze. E lascio che a parlare siano i lavori dei partecipanti a Letteralmente Fotografia.
Buona lettura.


Il canto della piana
Un pomeriggio solitario nelle campagne di Castelluccio di Norcia - di Edoardo Ciambelli

 
L’auto di Luciana è oramai un puntino sulla striscia diritta di asfalto che divide in due la piana di Castelluccio.

Muovo i primi passi, mi guardo attorno: montagne striate di neve proteggono la valle in ogni direzione e il paese è l’unico segno di urbanizzazione che il mio sguardo riesce a incontrare.  Il silenzio è rotto dal gracchiare di cornacchie che si alzano in volo e dal suono del vento a tratti forte. Niente di paragonabile a quello che spira nella grotta della Sibilla, ne sono certo.

Mi fermo, respiro piano,  l’aria è fredda, pungente.

Riprendo il mio cammino e dopo cinquanta passi, alla mia destra m’imbatto in cumuli di fieno, simbolo di una realtà contadina che rappresenta il passato e il presente di questo luogo. Percorro altri cento passi, esco alla mia sinistra, nel prato. Il terreno è ancora zuppo d’acqua e a tratti il monotono giallo dell’erba secca è interrotto da puntini viola. Sono crochi, un timido segnale di una primavera che sembra non voler arrivare. I fiori hanno la corolla chiusa, i petali si stringono a vicenda e riparano il loro cuore dalla fredda brezza, in attesa che un raggio di sole possa convincerli ad aprirsi al mondo.

Torno sull’asfalto, venti passi avanti e sulla destra ancora presse di fieno. Ancora venti passi e a sinistra, una rosa canina, agita le sue braccia prive dei rossi frutti che avrebbero dato piacere al mio palato e vitamine al mio corpo. Continuo la passeggiata e dopo tenta passi, a destra, un cartello di divieto di transito obbliga tutti i mezzi a non oltrepassare quel punto. 

Decido di proseguire comunque e dopo duecento passi la monotonia del giallo spento dell’erba è interrotto dal rosso acceso di un attrezzo agricolo che attaccato a un trattore consente la raccolta del fieno.

Questi campi spenti e tristi, provati dal lungo inverno, tra pochi mesi saranno ricoperti da un tripudio di colori. Chiudo gli occhi e m’immagino fiori mossi dal vento che mescolano i loro profumi nell’aria.

La prossima estate voglio essere qui.

Poco oltre, sotto ai miei piedi, centinaia di buchi nel terreno indicano gallerie sotterranee scavate dalle talpe. Faccio trecento passi ed ecco una recinzione metallica a proteggere un terreno ancora totalmente ricoperto di neve. Dalla recinzione mi sposto a destra di cento passi, verso una catasta di legna di faggio. Trenta passi oltre, una capanna, una cuccia, una catena, probabile rifugio notturno di un cane pastore. Alzo gli occhi e sulla collina di fronte il bosco a forma di penisola italiana mi appare in tutta la sua estensione. Faccio settecento passi in avanti e altri settecento verso destra e sono sotto “l’italietta”, vicino alla chiesetta. Salgo i pochi scalini che mi portano al piccolo altare; intorno alle due statue della Madonna solo fiori secchi e sopra molti rosari messi da fedeli, a simboleggiare un ringraziamento o una richiesta di grazia. Sulla parete sinistra, un testo spiega che il bosco italico è nato nel 1961, in occasione del centesimo anniversario dell’unità di Italia. Accanto, una delle più belle opere mai scritte: Il cantico delle creature di San Francesco di Assisi.

Riprendo il cammino, cento passi a destra, cinquecento in avanti, quattrocento a sinistra e arrivo a due capanne di metallo, sulle quali il vento si diverte a suonare melodie fatate. Accanto a loro, alcuni cardi secchi s’innalzano dal terreno lasciandosi cullare dalla brezza. M’incammino nuovamente, cento passi e sono sulla strada asfaltata. Alla mia sinistra solo prati e montagne, con sopra un plumbeo cappello di nubi che bloccano i raggi di sole di una giornata che ormai volge alla sera.  Altri settecento passi avanti e mi ritrovo in un maneggio, che oggi appare nelle vesti di un campo delimitato da staccionate in legno.

La luce del giorno è scomparsa, il grigio ha lasciato il posto al nero della notte. Chiamo Luciana. Nessuna stella in cielo, l’oscurità è interrotta solamente dalle poche luci di Castelluccio e dai fari delle auto che passano lentamente. Socchiudo un po’ gli occhi e salgo nell’auto di Luciana. Alle nostre spalle, la piana si dissolve, ma è solo un’illusione. Tra poche ore gli animali torneranno padroni della loro casa.
 
 
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Non mi strecciare/1 (di Ivana De Napoli, versione originale)
 

Se vuoi conoscere chi io fossi stata prima di divenire quello che ora sono, ti converrà sapere che tutto ebbe modo di accadere presso un piccolo paese arroccato, circondato da lunghe distese di campi e lisce montagne di pietra.

Sono la settima di sette fratelli. Mio padre, pastore di pecore. Mia madre, madre e contadina; mamma accudiva le mie sorelle, i miei fratelli, l’asino e pochi altri animali della stalla che avevamo.

Esterina, la maggiore di tutti, aveva nove anni e l’incarico di raccogliere legna nei boschi circostanti il paesello, ma soprattutto, Esterina, badava a me ché ero la più piccola.

Era lei che mi vestiva di petali leggeri come la seta appena filata, mi ornava i capelli di fresche corolle profumate d’aurora e mi nutriva di miele prezioso più dell’oro e dolce più dell’uva spina.

Era lei che mi cantava ninne nanne e filastrocche fataline sussurandomele  nell’orecchio per paura di crettare l’immenso e bianco silenzio ammantato sopra noi.

Era lei che mi passeggiava tra i fazzoletti colorati di zafferano, lavanda e papaveri.

Mi cullava nel ventre dell’albero cavo posto ai piedi della grande montagna così che quando il vento spirava forte rincorrendo gli ululati dei lupi non avrebbe potuto portarmi via da lei.

Era lei che mi accolse tra i raggi di luce lunare facendo di me un corpo di stelle.

Mi chiamo Roberta, sono nata nell’agosto 1961 e vivo a Castelluccio.

 
Voci/1

Sono anima soffiata dal vento, dentro il tuo silenzio, piove il destino altrui.

Sprofondo nell’acqua, mi sento chiamare, non mi strecciare.

Dove sei? Non ti vedo. Attorno solo sangue e fango. Non respirarmi.

Coriandoli di cenere e maschere di fango. Sono pronta per il ballo.

Mamma, perché indosso ancora questa divisa sporca? Questa medaglia al petto punge e mi fa male.

Ricordo solo sabbia. L’aria è satura di zolfo e intrisa di lacrime. La mia baionetta non spara più.

Mi guardi piangendo, sfiorando le tue dita sul quel viso. Non ti accorgi che invece sono dietro di te? Quella è solo un’immagine marmorea. Non volgermi le spalle.

Dovevo ascoltare i messaggi, trascriverli e riportarli al mio superiore. Una tortura, avevo male alla testa. Quelle voci mi hanno ucciso.

Continui a fissarmi così, finiscila! Ora sei libera.

Perché mi hai riunito a lei? Credevi davvero che ci mancassimo? Vuole ordine anche qui.

La mia bambina, dov’è la mia bambina? Roberta…

Qui dove il silenzio regna lei urla.



Non mi strecciare/2 (versione rivista con me)

Tutto ebbe modo di accadere in un piccolo paese arroccato. Intorno lunghe distese di campi e montagne di pietra.





Sono la settima di sette fratelli. Mio padre, pastore di pecore. Mia madre, madre e contadina; a lei il compito di accudire l’asino e i pochi altri animali della stalla. 

Esterina, la maggiore di tutti, aveva nove anni e l’incarico di raccogliere legna nei boschi. soprattutto, Esterina badava a me, la più piccola.

Mi vestiva di seta e mi ornava i capelli con l’aurora.

Mi cantava ninne nanne e filastrocche in un sussurro. Temeva troppo le screpolature del silenzio.

Era lei che mi passeggiava tra i fazzoletti colorati di zafferano, lavanda e papaveri.

Mi cullava nel ventre dell’albero ai piedi della grande montagna, così che quando il vento spirava forte rincorrendo gli ululati dei lupi, non avrebbe potuto portarmi via da lei.

Era lei che mi ha reso corpo di stelle.

Mi chiamo Roberta, sono nata nell’agosto 1961 e vivo a Castelluccio.

 
Voci

 
Sono anima soffiata dal vento, dentro il tuo silenzio, piove il destino altrui.

Sprofondo nell’acqua, mi sento chiamare, non mi strecciare.

Dove sei? Non ti vedo. Attorno solo sangue e fango. Non respirarmi.

Coriandoli di cenere e maschere di fango. Sono pronta per il ballo.

Mamma, perché indosso ancora questa divisa sporca? Questa medaglia al petto punge e mi fa male.

Ricordo solo sabbia. L’aria è satura di zolfo e intrisa di lacrime. La mia baionetta non spara più.

Mi guardi, sfiorando le tue dita sul quel viso di marmo. Non ti accorgi che invece sono dietro di te? Non volgermi le spalle.

Dovevo ascoltare i messaggi, trascriverli e riportarli al mio superiore. Le cuffie mi davano mal di testa, ogni volta. Quelle voci mi hanno ucciso.­­­

Continui a fissarmi così, finiscila! Ora sei libera.

Perché? Credevi davvero che ci mancassimo? Vuole ordine anche qui.

Qui dove il silenzio regna, lei urla.


 
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Una notte in sé
di Marco Cappellano
 h. 2:00
Decido di uscire a fare foto.
Scendendo le scale, all' ultimo gradino, le luci temporizzate decidono di spegnersi. Le riaccendo.
Un gatto in ceramica sul tavolo di fronte mi fissa dritto negli occhi.
Le chiacchierate con Daniele sulla paura dei lupi mi hanno un po' rassicurato, dopo aver sentito gli ululati.
Torno un po' nel momento in cui esco. Ma vabbè.
Prima del cimitero mi farò un giro per il centro di Castelluccio. I rumori mi disturbano. Intanto mi finisco una sigaretta, il lampione alle mie spalle.
Decido di salire al paese.
In un istante, mi giro verso il cimitero. I cani iniziano ad abbaiare. Una coda bianca si dissolve nel buio.
Magari riesco a farmi amico uno dei cani, così nel momento in cui entrerò nel cimitero sarò un po' più tranquillo. Mi avvio verso il centro, riaccendo  un' altra sigaretta.
Le persiane sbattono, sembra il far west. Mentre mi allontano, oltrepasso i fili dei pali della corrente che ronzano. Alcuni secondi dopo i cani iniziano ad abbaiare. Che siano ritornati i lupi?
Nella piazzetta centrale il vento muove qualcosa, sento un incessante rumore di campanelli, intervallato dai pezzi di carta, che spinti dal vento, girovagano nella piazza, come me. Senza una meta.
A prepararmi da quel cimitero che è come la piazza ed il resto delle strade in sè.
Controllo il respiro. Continuo.
Riaccendo la sigaretta per gli ultimi due tiri. Scrivo al buio.
Inizio facendo un giro largo.
La strada pulita e ben illuminata per un po' mi rassicurano. I lupi sono forse scomparsi dalla mia mente.

h. 2:31
Salgo fino ala cascina Brandimarte. Il vento è meno inquietante. Le lampade al sodio, attorno, mi rassicurano un po'.
h. 2:36
Non sembra più un percorso di paura. Imbocco in una gradinata dove il vento non si sente quasi più, e forse nemmeno il freddo, tant'è che nemmeno ci penso. Quel che mi rimette un po' di buon umore è il cinguettio degli uccelli, annidati sotto i tetti di alcune case che ho appena oltrepassato..
 h. 2:41
Nemmeno ho voglia di riaccendermi la terza sigaretta…

L' allerta è sempre dietro l' angolo.

Imbocco per una viuzza, quando noto alle mie spalle la luce di un lampione spegnersi e riaccendersi. Mi giro.
E' tutto ok. Un telo al lato sinistro della strada, alimentato dal vento, si gonfia e si sgonfia, come un polmone. Si rispegne il lampione. Pace.
h. 2:47
Il vento si rifà più forte… non mi va di sentirlo così forte, imbocco in via dela Volpe… riaccendo una sigaretta.
Mi rigiro di colpo (sarà un caso?): due cani, uno bianco ed uno pezzato bianco e nero, pattugliano le vie…
Naturalmente non mi cagano di striscio.
 
h. 3:25
Percorrendo alcune scalette arrivo alla chiesa di Santa Maria Assunta.
Una fontanella nel suo scrosciare ininterrottamente mi suggerisce di farla da qualche parte, e la faccio in un angolo buono che trovo..
Suggestione? Nella stessa via il cane bianco di prima continua a pattugliare le viuzze, ma di lasciarsi avvicinare non vuole saperne… mi giro dall' altra parte, scorgo l' agriturismo ed il cimitero. I cani laggiù, prontamente abbaiano, puntuali… sento di nuovo il vento.
h. 3:37
Situazione un po' più normale.

Mi trovo a ripercorrere le strade di ieri. Ma incontrerò i lupi???
Alla strada del ritorno, un guardiano (stavolta quello pezzato) dall' alto, abbaia. Cerco di farlo avvicinare, ma non ci riesco. Forse mi ha già riconosciuto…
h: 3.50
Il vento, nuovamente, non si sente più…
Almeno da me. Però lo sento, e più forte, soffiare verso il cimitero… ma i lupi???
Mi dirigo verso il cimitero. Il vento si rifà più forte. Sento i fruscii. Il guardiano si rifà vivo, stavolta quello bianco, come per avvertirmi. Mi segue, abbaia fino al palo dove ieri avevo sentito quei tre fruscii. Il cancello del cimitero cigola continuamente. Mentre scrivo, un minuto di calma. Il cane si zittisce, dopodichè inizia a chiacchierare con l'altro. Vabbè. Mi fumo una sigaretta, appoggiato sul palo, protetto dalla luce, in tutta calma. Non ho voglia di muovermi. Guardo il parco giochi di fronte a me, ascolto tutto ciò che ho attorno. Non mi muoverò finchè non è spenta…
Temporeggio. Le mando un messaggio.

E' finita la sigaretta. Il cane di prima ha pure smesso di abbaiare. Chissà se è un segno, se quando mi avvicinerò all' entrata il cancello smetterà di cigolare. Il vento è meno forte.
Per prima visiterò la tomba di Luigi… il cognome non mi torna, nello stesso istante il vento si rafforza. Il cancello ricomincia a cigolare.
Ora ricordo: Brandimarte. Me lo sono segnato su di una bustina di zucchero di canna, quando parlavo con Daniele. Sembra proprio che mi abbiano perdonato… in compenso, l'inchiostro sta per finire… poco male, ho una penna blu di riserva! Mi incammino…
 
Passo il capanno. Mi siedo di fronte alle tombe dei Brandimarte, prima di iniziare a cercare Luigi.
Non un rumore, solo un lieve sibilo, tanto più forte quanto più scrivo. Ma quando ho aperto il cancello, ho risentito gli uccelli cinguettare. Il vento si rifà forte, rimetto la penna in tasca…
h. 4.22 Mi risponde dicendo di essere un po' impegnata. La richiamo, parliamo per un minuto buono. Cade la linea…
Non importa. Non mi sento più solo…
Tempo un quarto d' ora, e ne sono fuori…
Nel momento in cui scrivo, il vento si rifà più forte, ma il cancello non cigola. E sento nuovamente un cinguettio. Esco, ma la strada di ritorno non mi rende inquieto.

h. 4.45
Forse il problema non era il cimitero, ma solo il cancello...
 
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Il respiro delle anime
di Valentina La Poetessa Triste
 
La città dei vivi ha luci fredde.
Il sacro terreno è soffice,
è la città dei morti ma non piango.
Vedo il vento.
Fa freddo ma le luci qui sono calde.
Lo sentiranno il vento?
Tra croci infilzate e fiori caduchi
li percepisco respirare
e camminano, nei miei opachi pensieri,
quegli sguardi annegati nell'immensità.
 
 
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La mail di Luciana Ciuffini (letteralmente poetica in sé)
 
vi ho sognato tutti quanti, eravamo insieme in un posto bellissimo che sia chiama Pian Grande, è uno dei posti più belli al mondo, parlavamo di fate scalze, folletti eleganti, di trecce intrecciate e cavalli sudati; ci osservavano montagne con gli occhi e pastori poeti, le ricotte sapevano di neve e la neve di ricotta. Che strano sogno, c’era chi girava l’Italia intera in un’ora e chi il Texas, c’era chi parlava con l’invisibile e chi cercava roulotte che non sarebbero dovute partire mai, andavamo in giro con una macchina volante e ci conoscevamo da una vita. Mi innamoro sempre di chi sogno.... MI MANCATE!!!
 
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La "Meriggia" fotografica di Maddalena Blandino
 
 
 
Il testo breve:
 
"Le fate erano tante belle,
iavano a ballà lì alla Rocca,
e se li ragazzi le toccavano, ce ballavano,
questi sparivano, volavano!
Venivano infatati!"

(Giuliana Poli)

Secondo un'antica credenza sibillinica
l'incontro tra un uomo e una fata, o con la danza, o con il canto,
poteva determinare il rapimento dell'uomo.
Avveniva così quella che viene chiamata "Meriggia",
ossia uno scambio, compiuto dalle fate, tra l'uomo rapito nel loro regno
e un suo simulacro che veniva lasciato vivere sulla Terra.
 
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E per finire, ecco a voi i manifesti del collettivo ZITTITRISTI, l'originale ideato dalla mente del medesimo, ossia Maria Teresa Dell'Aquila:
 
 
 
E sotto la versione riveduta da Marco Cappellano:
 
 



Sto singhiozzando. Non ci credete?
Ad maiora, ragazzi.
Mi zittisco.

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